La Dipendenza affettiva

“amare l’altro per dare senso alla propria esistenza”

Spesso la parola “dipendenza” si connota di significati non molto positivi: prevale l’idea di bisogno, di necessità e imprescindibilità, che creano un alone semantico attraverso il quale l’esperienza di dipendenza viene vissuta come segno di debolezza e immaturità, come relazione “insana” instaurata con una persona, cosa o sostanza. Una relazione che vincola, che lega e imprigiona l’individuo, il quale, avvolto da questa nebulosa spirale semantica, si vive come persona passiva, sopraffatta e prigioniera che non può far altro che lottare per sciogliersi da queste catene, cercando di sfidare la sua “dipendenza” (rimanendo alla fine, paralizzato all’interno di questa dimensione “dipendente Vs indipendente”). Difficilmente potrà rassegnarsi ed accettare l’immagine di sé che ne esce, date le implicazioni che il significato socialmente condiviso di “dipendenza” comporta.
La dipendenza quindi non è un vizio, né una malattia ma un processo che si innesca quando una persona nel contatto con un particolare oggetto sperimenta una maniera diversa di essere valorizzandola come una ristrutturazione del sé positiva e più funzionale. Ossia è la convinzione di aver trovato in una determinata situazione, la risposta fondamentale ai propri bisogni e desideri essenziali, che non è possibile soddisfare se non in tale situazione.
Tra le forme di dipendenza quella affettiva è una delle meno tangibili: la persona non è dipendente da una macchina, dalla bottiglia o da una droga, dipende da un “cuore”, da una speranza, da una presenza. La presenza dell’altro non è più una libera scelta ma è vissuta come una questione di vita o di morte: senza l’altro non si ha la percezione di esistere. I propri bisogni e desideri individuali vengono negati e annullati in una relazione simbiotica. Quando l’essere umano amato scompare, il dipendente affettivo si ritrova in piena astinenza ed in balia dei flutti, tutto il suo essere è alla deriva in un’angoscia emotiva che vive come un martirio.
Spesso la persona dipendente anche se consapevole che la relazione stessa è senza speranza, insoddisfacente, umiliante ed autodistruttiva, non è assolutamente in grado di uscirne. Può sviluppare inoltre una sintomatologia come ansia, depressione, insonnia, inappetenza, malinconia ed idee ossessive e paranoiche.
La dott.ssa Norwood nel suo libro “Donne che amano troppo” esprime con molta chiarezza questo vissuto: “Se mai vi è capitato di essere ossessionate da un uomo, forse vi è venuto il sospetto che alla radice della vostra ossessione non ci fosse l’amore, ma la paura; noi che amiamo in modo ossessivo siamo piene di paura: paura di restare sole, paura di non essere degne di amore e di considerazione, paura di essere ignorate, o abbandonate, o annichilite. Offriamo il nostro amore con la speranza assurda che l’uomo della nostra ossessione ci protegga dalle nostre paure; invece le paure e le ossessioni si approfondiscono, finché offrire amore nella speranza di essere ricambiate diventa la costante di tutta la nostra vita. E, poiché la nostra strategia non funziona, riproviamo, amiamo ancora di più. Amiamo troppo.”

Ma come è possibile uscire da questo “dilemma” tra la necessità di dipendenza dalla persona amata, come forma di esistenza e la consapevolezza della profonda sofferenza che viviamo quotidianamente. G. Kelly nella sua “Teoria dei Costrutit Personali” ci propone una chiave di lettura della dipendenza che ci aiuta a dipanare questo dilemma ed a trovare una possibile strada alternativa verso una soluzione. La dipendenza non è di per sé qualcosa di negativo – sostiene questo psicologo-, ma un atteggiamento necessario affinché l’individuo possa crescere, conoscersi e realizzarsi. Il neonato dai primi giorni fino ai primi anni di vita dipende dalla madre come unica fonte essenziale per la propria sopravvivenza, senza la quale non avrebbe possibilità di crescita. Successivamente l’individuo crescendo sviluppa ed accresce i propri bisogni, trovando di volta in volta persone e situazioni che gli permettono di soddisfarli, distribuendo quegli aspetti di realizzazione di parti di sé in un ampio spettro di dipendenze che siano relazioni, situazioni, oggetti ecc.
In questo modo, qualora venisse meno uno degli oggetti della dipendenza nella mia vita, sarebbe soltanto una parte di me che non ha più la possibilità di essere soddisfatta di esprimersi, ma restano intatte tutte le altre parti di me. Diversamente succede se scompare il mio unico oggetto della dipendenza, al quale ho legato completamente ed unicamente i miei bisogni, viene meno anche la mia esistenza stessa.
In questo sta la chiave di svolta del dilemma, dove il problema non è più visto come una scelta tra essere dipendenti o essere indipendenti, ma tra una dipendenza ampia e distribuita rispetto ad una scarsamente o per niente distribuita.
La terapia con un approccio costruttivista risulta particolarmente efficace proprio perché nella relazione con il paziente “dipendente” promuove la comprensione della dipendenza senza negarla o giudicarla negativamente, favorendo con il paziente una maggiore consapevolezza dei bisogni legati alla relazione affettiva e sviluppando modi di dispersione della propria dipendenza.

Consigli bibliografici:
Clemente, (2008), “Imperfetto Onirico. Quando sognare diventa un viaggio consapevole”, Armando Editore;

Film:
Fino alla fine del mondo” di Wim Wenders