Disagio adolescenziale: gli attacchi di panico

Dalla paura di perdersi alla paura della paura.

L’adolescenza è un età di cambiamenti: il corpo cambia, le emozioni si fanno più intense, le relazioni con i genitori evolvono e arrivano i primi turbamenti sessuali. Oggi parliamo di un problema concreto legato al disagio adolescenziale.
L’ansia in adolescenza rappresenta spesso un campanello di allarme! Il ragazzo/a ha difficoltà ad adattarsi a questi cambiamenti e nell’acquisizione delle nuove competenze personali e relazionali.
In adolescenza la tendenza a strutturare una credenza rigida alla base della paura del giudizio, del rifiuto, dell’ansia da prestazione, dell’ansia sociale può innescare la costruzione di un sistema di credenze e di reazioni che possono compromettere lo sviluppo della sicurezza personale e di competenze specifiche. Una delle forme di manifestazione dell’ansia sono gli attacchi di panico, definiti anche ansia parossistica episodica, cioè indica che si tratta appunto di un disturbo d’ansia, che dura per un periodo di tempo limitato e finisce spontaneamente (parossistica) ed infine che capita una volta ogni tanto, e la frequenza può essere anche molto variabile a seconda del caso (episodica). Recenti ricerche svolte in ambito scolastico (scuole secondarie superiori) hanno evidenziato come circa il 28% della popolazione intervistata, abbia manifestato almeno un episodio di attacco di panico. Ma cosa succede di preciso durante un attacco di panico, cosa si prova? Accade di rimanere pietrificati dalla paura, una paura impossibile da gestire, caratterizzata anche da sintomi fisici come palpitazioni, sensazione di soffocamento, sudorazione, vampate, tremori, vertigini e nausea.
Gli attacchi di panico sembrano indicare una ribellione da parte di tutto l’organismo per qualcosa che succede e che sembra tenerci imbrigliati e chiusi in una gabbia.
Nel mio lavoro quotidiano con gli adolescenti, ritrovo spesso queste manifestazioni che vengono quasi sempre ricondotte ad un’esigenza di fuga da una situazione vissuta come molto minacciosa anche se semplicemente a volte si tratta di un’interrogazione o un confronto con un amico/a. La minaccia sebbene per molti sembra assurda, per l’adolescente va proprio ad intaccare quegli aspetti identitari ancora vacillanti che però non possono essere messi in discussione, per questo la forma diciamo di “autodifesa” è quella di allontanarsi, non affrontare e quindi in qualche modo fuggire dalla situazione che sta per affrontare. Questa reazione, da questo punto di vista, risulta efficace ed in qualche modo positiva se riesce nell’intento di non compromettere aspetti identitari dell’adolescente, evitando una crisi potenzialmente più dolorosa. Il problema non nasce pertanto dall’episodio di attacco di panico, ma dalla possibile reiterazione in situazioni simili od applicazione in altre situazioni di difficoltà, portando successivamente ad allontanarsi od evitare tutte le situazioni potenzialmente ansiogene, entrando in un circolo vizioso della “paura di avere paura” che può creare un vero e proprio disinvestimento nell’esperienza di crescita di un’adolescente.

Disagio adolescenziale: l’autolesionismo

“mi taglio quindi esisto”

Da sempre l’adolescenza, nel suo essere momento di cambiamento per l’individuo in crescita, è stata caratterizzata da modalità ed espressioni tipiche di manifestazione di questo cambiamento. Spesso le reazioni sono di disagio e di non accettazione di ciò che sta accadendo all’individuo sia dal punto di vista corporeo che di pensiero o d’identità personale. Ogni generazione ha manifestato caratteristiche specifiche e differenti nei diversi periodi storici. La mia esperienza di lavoro con gli adolescenti mi ha portato ad osservare negli ultimi anni un aumento di manifestazioni del disagio attraverso due modalità specifiche: l’autolesionismo e gli attacchi di panico.
La pratica dell’autolesionismo è ormai un fenomeno sociale, anche se solo da poco si è cominciato a raccogliere dati. Ma intanto alcune statistiche internazionali parlano già di un 10% di adolescenti fra i 12 e i 15 anni che “lo fanno”(soprattutto femmine), e con una diffusa tendenza all’aumento. Dire “cosa” fanno è difficile, perché chiudersi in bagno per tagliarsi le braccia con una lametta, un paio di forbici, un pezzo di vetro, o bruciarsi con la sigaretta, stringendo fra i denti un fazzoletto per non urlare, non è una cosa che si possa facilmente comprendere o spiegare. Sebbene, a detta degli esperti, l’effetto fisiologico del dolore da taglio, ripetuto ossessivamente, produca endorfine che, esattamente come le droghe, anestetizzano. E creano dipendenza. Il che spiega perché, poi, uscirne diventi, per loro e per chi tenta di aiutarli, un’operazione complessa. Una pratica di cui gran parte degli adulti neanche immagina l’esistenza, e però seduce sempre più pericolosamente la fascia d’età esposta al massimo di incertezza sulla propria identità. E’ proprio questa è la chiave di lettura, per dare un senso ad un comportamento che sembra assurdo (come spesso accade per i comportamenti adolescenziali), l’affermazione della “propria identità” dell’adolescente in un momento in cui è debole, vacillante, non ancora strutturata e messa costantemente in discussione da chi gli sta attorno. Perché il dolore, e comunque ogni forte sensazione fisica, serve per annullare quella di non esistere, o di un profondo dolore interiore, avvertito come ancora peggiore, da cui distogliere a tutti i costi il pensiero. Scatenato, all’apparenza, da problemi normali, un litigio, una delusione amorosa, l’offesa di un amico, che in personalità strutturate vengono governati, e in altri casi invece deflagrano. Un invito ai genitori quindi, al primo segnale (strane cicatrici, maniche lunghe anche d’estate, bracciali vistosi, macchie di sangue a letto e in bagno, oggetti da taglio nel beauty case, ecc.), invece di dare in escandescenze, si provi a capire (e nel caso si contatti subito uno psicologo), facendo capire al proprio figlio che forse ci sono altri modi per farsi ascoltare.